venerdì 16 dicembre 2011

Scacchi

Non è vero che gli ingegneri giocano meglio a scacchi dei comuni mortali. Dalla mia esperienza è uno stato di essere: gli psicologi giocano male, gli architetti un poco meglio, ma sono confusionari, gli ingegneri pensano di prevedere la fine, ma si dimenticano delle fondamenta...
Non ho abbastanza esperienza per dare una valutazione completa sui musicisti, ma mi sorprendono talvolta. Non che io sia un teorico e abbia letto i manuali dei campioni, ma gioco regolare, provando combinazioni differenti, impostando il mio gioco per una partita che si chiuda ai pedoni, o con un cavallo di vantaggio - pezzo irrequieto, senza grandi pretese, ma che da sempre fastidio. Un geologo - un tempo - mi ha sempre costantemente battuto, ma non so se perchè bevevo molto più di lui o se per vera capacità.
Si pensa che gli scacchi siano la matrice principe della logicità, del puro raziocinio. Per quello che mi concerne, non è affatto vero. Gli scacchi risentono dell'ambiente in cui si gioca, del tempo, della fretta, è una cartina al tornasole del proprio stato d'animo, una terapia, una mano di taroccchi, una pausa di riflessione intima del proprio stato d'essere.
Trovo difficile trovare dei buoni avversari di scacchi, regolari, per trovarsi la domenica pomeriggio, scambiare due chiacchiere e bersi un the, o un paio di birre. Trovo sempre l'enfasi della competizione, del superamento, della dimostrazione di personalità. Lo ammetto, non sono particolarmente competitivo, preferisco l'ambivalenza e la complementarietà, avrò letto troppo giovane libri sbagliati...
Un'immagine mi torna in mente: Tiblisi, e i suoi parchi, e i vecchi che giocavano assorti, fumando sigarette, in silenzio, con uno sguardo al passante, alla strada, al mondo intorno a loro...

martedì 15 novembre 2011

Autunno

Le giornate cominciano a diventare sempre più fresche. Sospetto che la notte geli anche, le piante sul balcone sono già ritirate in cucina... Nei viali è un piacere passeggiare ed ascoltare il crocchiare delle foglie secche sotto i piedi. Qui, l'autunno è quasi una liturgia: la gente si prepara, controlla l'isolamento delle finestre, dei tetti, delle porte, nelle case vecchie si raddoppiano i vetri con pannelli di cellophan transparente fatti apposta per l'uso. Io ho solo cambiato la trapuntina nel mio letto, spolverato gli scarponcini da neve e tengo un occhio alle vetrine per vedere se sarà quest'anno che il vecchio giubbone di pelle sdruscita andrà in pensione, rimpiazzato da qualcosa di più moderno e caldo. Ma quello che è più deprimente, non è il rigore dell'inverno, ma il progressivo declinare della luce. Novembre è il peggio: la notte arriva presto e l'alba sembra sempre un po' in ritardo, un'oscurità che ottunde, che rintuzza le idee di sortita. Rimpiango un po' i viaggi ai Caraibi, al sole dei tropici, sulla sabbia rossa e nelle lagune verde smeraldo, viaggi che erano abbinati al lavoro passato: erano una scarica di sole, di energia, di luce, di buon rhum e l'allegria di andare in ufficio in camicia, con il costume nella sacca colorata da spiaggia nel portabagagli dell'auto a nolo, per l'uscita alle 16.
Tempi passati, mi tocca scopare le foglie gialle dalla scala d'ingresso del mio appartamento, attività sociale da comare di quartiere.
Yeah!

domenica 16 ottobre 2011

Anonimato

Con lentezza consumata, un vecchio mischia in un cucchiao della polvere bianca, una presa di bicarbonato di soda e qualche goccia d'acqua. Il composto reagisce al calore di un fornelletto elettrico e dopo qualche instante compaiono dei cristalli che vengono fatti cadere con delicatezza in un piattino di ceramica scuro. Odore dolciastro e persistente di sangue umano bruciato, che affiora copiosamente sotto l'ago del tatuatore. La ragazza distesa sul lettino vede formarsi sotto la paziente luce dell'uomo chino sulle sue cosce, un simbolo tribale impresso nella sua carne. Un vecchio in sedia a rotelle consuma il suo pasto di verdure bollite insipide prima di coricarsi ed indossare il respiratore, avviticchiato in una miriade di cavi connessi a compressori e macchine che paiono vive. Con gesti precisi ed incisioni di bisturi il cranio di un germano reale è aperto e disossato e le ossa prelevate sono poste ordinatamente in confronto con il simulacro in resina sintetica che prenderà il posto, dopo opportuna colorazione, della carne un tempo viva e pulsante. Un essere androgino e mostruoso gonfia i muscoli possenti con lentezza e metodicità di fronte ad uno specchio: le vene affiorano istantaneamente striando un corpo che diviene inumano nella sua ipertrofia...
Non è un delirio psichedelico di uno scrittore povero d'inspirazione, ma un frammento di un affresco vivente proposto come viaggio anonimo e crudele nello "zoo" dell'umanità nascosta e quotidiana da un teatro sperimentale ai bordi della metropoli: essere spettatori e spettacolo, in una fruizione voyeuristica costante, un frugare silenzioso nello specchio caleidoscopico dell'Altro senza speranza di trovare il riflesso di ciò che si è, di ciò che si può sentire vicino, prossimo. E la condivisione diviene esclusivamente vicinanza e la vicinanza - in un percorso doloroso, agonico e irreversibile - contaminazione.
Il teatro ha questa forza unica di proiettare la totalità dello spettatore all'interno di labirinti di codici, di sensazioni, di realtà mimata - in questo caso frammentata - e la sola resistenza che viene preservata è la possibilità dell'interruzione. Interruzione che diviene necessaria quando la tensione emotiva diviene insopportabile, abituati al bacello, alla protezione sociale e marginale che la società - e la società cosmopolita di essere estraneo in terra straniera - impone e pretende.
Solo, sulla banchina della metropolitana, nel mio impermeabile, dirigendomi verso un evento notturno, assisto allo spettacolo perverso di un vecchio che si denuda ed orina sulle scale dall'altra parte dei binari, massaggiandosi i magri glutei. Non più teatro, anche se d'avanguardia, ma realtà e la realtà evade ogni tentativo di ermeneutica. Fuori, piove, vento freddo.
Montreal, Zoo 2011.

domenica 25 settembre 2011

Passeggiata nel quartiere

Fermata della metropolitana Joliette. Linea verde. Già nell'atrio della scala mobile un suono di chitarra arpeggia delle melodie folk ed una voce accompagna lievemente lamentosa, lievemente timida tra il ronzio dei meccanismi che mi portano in alto, verso l'uscita. La stanchezza del primo autunno, nell'apice dello splendore della natura si avverte già, come un'intuizione, il primo sibilo del riposo invernale e una nota di freddo nell'aria presagisce il rigore del gelo. Ma non è ancora freddo, non è ancora buio presto la sera e si avverte ancora l'allegria estiva. Prendo per una ruelle, ancora lluminata dal sole. Alcuni gatti sonnecchiano pigramente e dalla finestra occhieggio un pittore all'opera nel ritratto di una modella dagli occhi spenti "ritratto di donna con vaso di fiori", non penso che lo vedrei nel corridoio del mio appartamento...
Un uomo seminudo corre verso un depanneur, sul patio di una casa che si affaccia sulla strada due uomini obesi escono lentamente con una sigaretta in mano, uno inciampa nel gradino, impreca e scaracchia nel giardino. Mi viene quasi da ridere.
Davanti alla casa di riposo, tre vecchie avvolte in una coperta sorseggiano una tazza di the, camminando in ciabatte e calze di lana, mentre nel parco di fronte l'equipe di ultimate fresbee suda, correndo qua e là dietro il disco di plastica che saetta nell'aria. In piazza, c'è un violinista di mille anni che stride le sue corde; è il mio preferito, il suo suono disarmonico, il suo viso antico e la disperazione lacerante del suo violino entrano nei miei pensieri e si mescolano alle immagini del mio lento ritorno a casa. Ci sono delle donne che parlano tra i balconi, i bambini scendono dalla discesa della pista ciclabile seduti su degli skateboard, mentre un gruppo di ragazzi compie degli esercizi ginnici nel parchetto attrezzato dall'altra parte della strada. Qualche commerciante inizia a chiudere i negozi, il traffico è sempre abbastanza sostenuto a quest'ora.
Arrivo a casa, incrocio lo sguardo con la vicina bionda: io la guardo e lei mi guarda. L'altra mattina è uscita in mutande a gettare la spazzatura, mentre passavo per andare a prendere n caffè: lei sa che ho visto le sue natiche tonde e floride, io so che lei sa che l'ho vista, è troppo poco per niente e salgo le scale verso il primo piano. Il cane della vicina ha ancora pisciato sulla mia porta, più tardi passerò un colpo di disinfettante, quando porterò fuori il pattume, che domani passa la nettezza urbana.
Una vocina di bimba dalla finestra mi saluta allegra: "Bonne soir, monsieur", "Bonne soir madmoiselle".
Gli ubriachi al bar all'angolo hanno già cominciato ad urlare e, in silenzio, i globi gialli delle luminarie della sera si accendono tra le foglie dei grandi alberi dell'avenue Valois.

mercoledì 14 settembre 2011

CC Generation

Customer Care Generation: la generazione di chi legge il manuale d'istruzione. Ma la Vita non lo fornisce, o meglio, proprio non ce l'ha! E allora? Un sacco di persone allo sbando, alla ricerca, che si arrabattano, cercano sé stessi o, in apparenza, il loro manuale d'istruzione, senza nemmeno sognarsi di scriverselo da sé, e - di conseguenza - sono depressi. 
L'altra notte, in un seminterrato adibito a luogo di vita ho visionato su un vecchio VHS (sono super snob vintage, lo so!) un film registrato alla fine degli anni '90 alla TV, pubblicità compresa. Premessa: non possedendo o vedendo la televisione da più o meno 10 anni - con qualche rara interruzione, per onor di cronaca - la pubblicità di fine anni '90 - e la pubblicità confezionata in Nord America - mi ha fatto un certo effetto: antisudorifici e culetti di bambini non sono mai stati in cima ai miei pensieri, ma sembravano essere il top del marketing della prima serata di quindici anni fa... Il film in questione era "Love & human remains" del 1994, di Denis Arcand - quello della trilogia dei barbari, per intenderci -, uscito in Italia con il titolo "La Natura ambigua dell'amore": relazioni ambigue, droga, violenza seriale, giacche di pelle lucida, notte, vita di coinquilini isterici, crisi del trentenne, un cinismo perverso e un alone di paranormale coniugato con un sado-masochismo sperimentale e, per gli amanti di cinema, molte allusioni e citazioni che arricchiscono il tessuto diegetico in maniera spesso contraddittoria e sempre suggestiva. Insomma, una visione di sezione dell'underground della società capitalistica urbana e metropolitana pre 11 settembre (esisteva un pre...), crisi sulla sicurezza, economica e via....
E la CC Generation? Caos, confusione, singhiozzi, elegie trite e ritrite, eppure... come nel film, più che una mancanza esistenziale dei personaggi, c'è l'oppressione del contesto: nel film c'è sempre traffico nelle strade, i locali sono strapieni, i telefoni - non ancora cellulari - suonano a qualsiasi ora del giorno e della notte, nessuno dorme mai, non c'è pace... nella vita di tutti i giorni i problemi che ci troviamo ad affrontare sono i detriti di un mondo che è stato setacciato a trama fine da chi ora fa lacrime di coccodrillo e pretende ancora di insegnare il futuro.
Per questo il mio consiglio alla CC geneation è sempre quello di dare un taglio netto, licenziarsi, bruciare casa e famiglia, strapparsi di dosso la paura di essere poveri, soli, malati, ignoranti, falliti, di morire giovani...
Filo conduttore singhiozzante, questo post...

mercoledì 10 agosto 2011

Fuori dai margini


Al di là dei confini delle nostre vite, dei nostri lavori, dei nostri passi.... al di là del nostro spettro di visione, della nostra fantasia - per chi la usa ancora... -, dei nostri pensieri e dei nostri discorsi... al di là dei margini dei nostri schermi, dei nostri cellulari, delle nostre televisioni... al di là dei margini dei nostri sistemi, delle nostre pur complesse elaborazioni, dei nostri progetti, dei nostri sogni e dei nostri desideri... un poco al di là di ciò che consideriamo realtà, di ciò che abbiamo imparato a considerare giusto, sbagliato, comprensibile o semplice ciarlataneria... lo sentiamo, ci sfugge, lo percepiamo a volte con la coda dell'occhio, nei momenti dove siamo più fragili, più scoperti, meno difesi... eppure è là, che ribolle, che pulsa, lo stesso ritmo che ci manda avanti, la stessa fibra che tesse i nostri giorni, la stessa materia che costruisce i nostri progetti... ma è altro, altro ancora, la fessura di presunto ordine che illusoriamente pensiamo di aver conquistato non lo elimina, rimane là, appena fuori campo, appena fuori misura, appena oltre..
C'è ma non lo vediamo, lo percepiamo, a volte, ma non lo distinguiamo, indefinibile, accennato, eppur presente, intoccabile, originario, primitivo eppur eterno, oltre la nostra comprensione, la nostra scienza, le nostre povere fedi...
Il respiro dell'universo, coincidenza oppositorum, gli ero(t)ici furori, l'hanno chiamato in molti modi... ed ancora: il quid, il principio primo, l'antimateria, l'atomo, il quanto, il bosone ed il neutrino, il rumore bianco, la nube luminosa, lo tsimtsum, il vecchio Kronos...
C'è e possiamo vivere con senza problemi, non si cura dei nostri traffici meschini, inspira i più sensibili, i più deliranti, nutre l'immaginazione, è pretesto per mille scuse, sfida la logica umana, rasenta la follia.
Ammetterlo è già impensabile, negarlo... non si sa mai!

giovedì 28 luglio 2011

34 ovest

7.03. Arriva l'autobus del mattino, che mi porta verso una nuova giornata. Ormai ci ho fatto l'abitudine: l'autista è un signore brizzolato, magro, che saluta mentre controlla che la tessera dell'abbonamento faccia il giusto bip sul rilevatore elettronica. Marchiamo presenza. Anche questa mattina. 
La popolazione che trovo all'interno è varia e silenziosa: c'è la signora dai capelli radi e permanente, con un filo di perle al collo e le pieghe della vecchiaia che iniziano a farle cascare il mento, un signore corpulento con un braccio al collo che puzza già di sudore e un lontano sentore di alchool e infatti ha delle macchie sospette, ormai asciutte, sulla pancia prominente, c'è una bionda dallo sguardo assente, in piedi, che si tocca i capelli dietro gli auricolari nelle orecchie, che trovo misteriosa e lontana, nel suo mondo. Mi siedo vicino alla porta posteriore, la mia sacca con dentro il pranzo sulle ginocchia e anch'io ascolto musica, vecchi brani italiani anni '70 e '80, qualche brano trip hop, un po' di Armstrong e Nancy Sinatra, musica araba e balcanica dal carattere fusion. Sbircio la copertina del tipo di fianco a me: sta leggendo Gogol, il titolo mi sfugge nella traduzione inglese. C'è molta gente che legge sui bus del primo mattino: una delle scorse settimane sono rimasto commosso a vedere una signorina nervosa dai capelli corti che leggeva il "Diario di Anna Frank" e sorpreso a spiare un uomo dalla capigliatura arruffata intrattenersi con "L'origine delle specie" di Darwin. Mi viene in mente una vecchia trasmissione di Radio 3, dove si indagava sulle letture nei luoghi pubblici: anche loro sarebbero sorpresi a constatare le letture dellla 34 ovest del mattino....
Una decina di minuti e arriviamo alla stazione della metropolitana. Mentre camminiamo verso l'entrata, in silenzio e più o meno in fila, molte donne si danno l'ultima occhiata nelle vetrate a specchio. La tipa bionda di prima ha decisamente un'aria intrigante e un gran paio di gambe, ma se ne va in un'altra direzione ed io sto già scuotendo le mani per non farmi rifilare il giornale gratuito all'entrata delle scale mobili. 
Nelle orecchie, Ray Manzarek ripete tra il trambusto della fretta mattutina uno dei suoi assoli migliori alla tastiera:
"Riders on the storm
Into this house we're born
Into this world we're thrown
Like a dog without a bone
An actor out alone..."

lunedì 18 luglio 2011

Limiti II

Senza dubbio il limite mi affascina. La consapevolezza di essere coscienti dell'esatto istante e meccanismo che porta una realtà ad essere altro, il bordo del tempo, dello spazio, dell'essere dal non essere più... A guardare bene, c'è una continuità armonica di contrazione ed espansione, una sottile zona grigia dove qualche cosa arriva e diviene, non è più, compenetra ed espelle già il qualcos'altro, una sintesi di rigetto, dove al posto di essere con, si diviene essere altro. Me ne rendo conto, si sconfina (!) nell'ontologico su questa via, un percorso sdrucciolevole di questi tempi, dove il digitale - per intenderci il linguaggio binario 0, 1 - è diventato una bella scusa per tagliare il nodo gordiano dell'ambivalenza, dell'essere non ancora e l'essere di già...
Le albe e i crepuscoli del nord, che si protraggono esageratamente e non è mai subito sera, le notti agitate dal lento roteare delle costellazioni, le maree che sono e non sono già più, gli affetti che si tramutano in passioni per sgretolarsi in indifferenza, la bottiglia che sempre si svuota per quanto piccolo il bicchiere tu decida di utilizzare....
"Una valanga, una frana, un'eruzione non è che un nuovo equilibrio che si forma, una nuova stasi", così mi raccontava un vecchio saggio conoscitore delle montagne e della geologia, che dagli anni '60 mappava con carotaggi regolari tutta la catena delle Alpi e quindi di queste cose ne sapeva da vendere, eppure non c'è che la gravità, che porta tutto in basso e livella. C'è stato un tempo di forze inimmaginabili, inumane per i nostri orizzonti fragili, dove le ossa della terra si sono tese ed anno sfidato le altezze, i vertici, i limiti. E forse già alla prossima alba, al limite della notte - per dirla insieme a Celine e al suo titolo così meraviglioso - che il limite si contrae e si lacera, per ricomporsi al prossimo crepuscolo.
Nel quartiere, una sirena della polizia lampeggia, tra le chiostre di buio delle finestre del vicinato, c'è una luce accesa, qualcuno veglia.... o ha semplicemente una brutta sbornia. E non è che lunedì...

sabato 16 luglio 2011

Intermezzo II

- Siediti, Stirkoff.
- grazie , signore.
- distendi pure le gambe.
- molto gentile da parte sua, signore.
- Stirkoff, mi hanno informato che hai scritto articoli sulla giustizia, sull'eguaglianza; anche sul diritto alla gioia e alla sopravvivenza. Stirkoff?
- sissignore.
- pensi che ci sarà mai una giustizia totale e ragionevole sulla terra?
- non esattamente, signore.
- ma allora perchè scrivi quelle stronzate? sei forse malato?
- mi sento strano da un po' di tempo a questa parte, signore, come se stessi per impazzire.
- bevi molto, Stirkoff?
- naturalmente, signore.
- e fai cosaccine da solo?
- di continuo, signore.
- come?
- non capisco, signore.
- cioè, com'è che te le fai?
- quattro o cinque uova e mezzo chilo di carne trita in un vaso di fiori col collo stretto mentre ascolto Vaughn Williams o Darius Milhaud.
- di vetro?
- no, di dietro, signore.
- volevo dire, il vaso è di vetro?
- naturalmente no, signore.
- ti sei mai sposato?
- molte volte, signore.
- siediti, Stirkoff.
- grazie, signore.
- Cos'è che non ha funzionato?
- tutto, signore.
- qual è stato il più bel pezzo di fica che tu abbia mai avuto?
- quattro o cinque uova e mezzo chilo di carne trita in un...
- d'accordo, d'accordo!
- sissignore.
- ma capisci che il tuo desiderio di giustizia e di un mondo migliore è solo una scusa per nascondere la decadenza, la vergogna, e il fallimento che sono dentro di te?
- eggià.
- tuo padre era cattivo?
- non so, signore.
- cosa vuol dire non so?
- voglio dire che è difficile fare paragoni. vede, di padre ne ho avuto uno solo.
- stai cercando di fare il furbo con me, Stirkoff?
- oh, no, signore: come lei dice la giustizia è impossibile.
- ti picchiava tuo padre?
- facevano i turni.
- pensavo che avessi avuto un solo padre.
- come tutti, volevo dire che s'alternava con mia madre.
- ti voleva bene tua madre?
- ero solo un prolungamento della sua persona.
- che altro può essere l'amore?
il luogo comune secondo cui si ha grande cura di una cosa molto buona. non è necessariamente legato alla consanguineità. può essere un palloncino rosso o un toast imburrato.
- vuoi dire che potresti amare un toast imburrato?
- solo pochi, signore. in certe mattine particolari. sotto certi raggi del sole. l'amore arriva e scompare senza preavviso.
- è possibile amare un essere umano?
- naturalmente, soprattutto se non lo si conosce troppo bene. mi piace guardare la gente da dietro la finestra, quando cammina per strada.
- sei un vigliacco, Stirkoff.
- naturalmente, signore.
- qual è la tua definizione di vigliacco?
- un uomo che ci penserebbe su due volte prima di lottare contro un leone solo con le mani.
- e come definiresti il coraggioso?
- un uomo che non sa cos'è un leone. ogni uomo crede di saperlo.
- e come definisci lo stupido?
- un uomo che non arriva a capire che Tempo, Struttura e Carne vengono quasi sempre sprecati.
- ma allora chi è il saggio?
- i saggi non esistono, signore.
- se è così non esistono neppure gli stupidi. senza la notte il giorno non esisterebbe; senza il bianco il nero non esisterebbe.
- mi spiace, signore. ho sempre pensato che ogni cosa fosse quel che è indipendentemente dall'esistenza di qualcos'altro.
- hai infilato il cazzo in troppi vasi di fiori. ma non riesci proprio a capire che OGNI COSA è giusta, che niente può andar male?
- comprendo, signore, vada come vada.
- cosa diresti se ti facessi decapitare?
- non potrei dir niente signore.
- voglio dire che se ti facessi decapitare io rimarrei il Volere e tu diventeresti il Nulla.
- diventerei qualcos'altro.
- a mio PIACIMENTO.
- a nostro piacimento, signore.
- calmati! calmati! distendi le gambe!
- molto gentile da parte sua, signore.
- no, molto gentile da parte di tutti e due. affermi di avere spesso la sensazione d'esser pazzo. cosa fai quando hai questa sensazione?
- scrivo poesie.
- la poesia coincide con la follia?
- la non-poesia è follia.
- cos'è la follia?
- la follia è l'orrore.
- cos'è l'orrore?
- qualcosa di diverso per ogni persona.
- ma l'orrore è parte di un tutto?
- è li.
- ma è parte di un tutto?
- non lo so, signore.
- dimostri d'esser saggio. cos'è la sapienza?
- conoscere meno possibile.
- come si fa?
- non lo so, signore.
- sapresti costruire un ponte?
- no, signore.
- sapresti costruire un fucile?
- no, signore.
- questi oggetti sono dei prodotti della conoscenza.
- questi oggetti sono ponti e fucili.
- ti farò decapitare.
- grazie, signore.
- perchè?
- lei rappresenta le mie motivazioni, mentre io ne ho molto poche.
- io sono la Giustizia.
- forse.
- io sono il Vincitore. ti farò torturare, ti farò urlare. ti farò desiderare la Morte.
- naturalmente, signore.
- ma non riesci a capire che io sono il tuo padrone?
- lei è il mio manipolatore ma non può farmi niente che non possa esser fatto.
- pensi d'essere astuto ma non dirai niente d'astuto tra un urlo e l'altro.
- ne dubito, signore.
- per inciso, come fai a reggere Vaughn Williams e Darius Milhaud? non hai sentito parlare dei Beatles?
- oh, signore, tutti conoscono i Beatles.
- non ti piacciono?
- non mi dispiacciono.
- c'è qualche cantante che non ti piace?
- è impossibile che esistano dei cantanti piacevoli.
- diciamo, allora, una qualche persona che tenti di cantare?
- Frank Sinatra.
- perchè?
- perchè lui evoca una società malata in groppa a una società malata.
- leggi qualche giornale?
- solo uno.
- quale?
- OPEN CITY.
- GUARDIE! CONDUCETE IMMEDIATAMENTE QUEST'UOMO NELLA CAMERA DELLA TORTURA E DATE INIZIO ALLE OPERAZIONI!
- un ultimo desiderio, signore.
- sì.
- posso portare con me il mio vaso di fiori?
- no, lo userò io!
- signore?
- volevo dire che te lo farò confiscare. guardia, conduci via quest'uomo e torna qui con, torna qui con...
- sissignore...
- una mezza dozzina d'uova e un chilo di carne trita...

Escono la guardia e il prigioniero. il re si china in avanti e fa una smorfia malvagia mentre la filodiffusione comincia a trasmettere un brano di Vaughn Williams.


Fuori, il mondo va avanti mentre un cane mangia da un bidone della spazzatura.

H. C. Bukowski - Stirkoff

lunedì 11 luglio 2011

Toni minori

Un articolo preso dal "Corriere della Sera" di qualche settimana fa: apparentemente le nuove generazioni non sono educate alla vita affettiva dei sentimenti. Da questo, una serie di problemi esistenziali, relazionali, affettivi, d'indipendenza e di dipendenza.
Mio malgrado, appartengo a questa generazione che spesso sento come "Customer Care Generetion" in opposizione alla "Generation X" da un testo di Copland, troppo americano per i miei gusti vecchia Europa; una parola posso spenderla quindi. Nessuno mi ha mai spiegato nulla in campo sentimentale. Ho imparato da solo, un po' di qua, un po' di là, spesso per vie traverse, molto in maniera esperienziale (e male). Se consideriamo il firmamento delle emozioni un universo di costellazioni, trovo che anche linguisticamente oggi si tralasciano molti astri minori. Sarà l'uniformità del "mi piace" di FB a portata di falange, sarà l'apatia generale e la stanchezza mentale che ci vietano di pensare per sistemi complessi. Ma voglio sottolineare come le sfumature d'attenzione, i clinamen sdruccioli dei toni minori, tutte questi mezzi toni rendono la tavolozza emotiva interessante, unica, preziosa, da scoprire. Toni minori: amarezza, nostalgia, malinconia, delicatezza, gentilezza, pazienza, umiltà, reticenza, pudore, imbarazzo, vaghezza, spensieratezza, costanza, simpatia, empatia, compassione, tenerezza...  Sfumature, complessità, che solo il tempo svela e frustra l'imperativo contemporaneo del tutto e subito. Coltivare relazioni sul lungo periodo, restare in contatto con persone che ci hanno accompagnato poco o molto nel nostro o loro percorso, questo può dare sensazioni impagabili, crediti di profondità con il respiro della vita.
Anni fa, nel periodo ruggente, tornati stanchi ed affamati da un viaggio pericoloso oltre i confini dell'Europa, intenti a bere un caffè finalmente decente nel cielo di Roma, con un amico ci trovammo a contare tutte le persone che avevamo incontrato durante gli ultimi dodici mesi: ne risultarono diverse centinaia. Di quanti di loro sono ancora in contatto oggi, ne posso contare i nomi su poche dita di una mano. Colpa mia, sicuramente, il bello della vita inattesa, l'angolo di strada che cela nuovi incroci, troppi indirizzi cambiati. Ma ho sempre mantenuto lo stesso numero di telefono e ho conservato gran parte degli indirizzi mail che si sono susseguiti nel tempo.
Toni minori, emozioni complesse, tempo, sfilacciamento dei contatti. Eppure siamo animali sociali, dipendiamo gli uni dagli altri, le facce che ci sono attorno non sono solo delle risorse necessarie, ma vite pulsanti, orizzonti sconosciuti, chiaroscuri misteriosi ed affascinanti. L'effimero che si tramuta in discorso, un pensiero laterale che sfocia nel centro, la periferia che assume contorni di verità alternativa e pregnante. Trovo che quello che è posto sotto i riflettori intorno a me, ha il sapore di poco, in confronto a questa armonia sottesa.

sabato 18 giugno 2011

"Sounds a bit old"

Zapping, una vecchia radio valvolare, con l'inconfondibile fruscio di polvere nella manopola che viene girata, spezzoni di un dialogo di un futile dramma radiofonico, poi qualche secondo di musica sinfonica,  ed infine qualche accordo di chitarra acustica, sulla quale l'attenzione sembra focalizzarsi. Rumori bianchi, oltre al fruscio elettrostatico dell'apparecchio, un colpo di tosse, quasi un singhiozzo, atmosfera intima, solitaria, riflessiva. Sui giri di accordi della chitarra radiofonica, una seconda chitarra si aggiunge questa volta viva e presente, un contrappunto timido, ma nitido che completa le linee armoniche, quasi che il ricordo suscitato dalla radio si cristallizzi in un istante di nostalgia. L'avrete senz'altro riconosciuto: sono i primi inconfondibili 60 secondi di "Wish you were here" dei Pink Floyd del 1975, realizzata da David Gilmour in memoria di Syd Barrett, che in un'improbabile apparizione il 5 giugno di quello stesso anno, calvo, grasso - aveva solo 29 anni - e con una busta della spesa in mano, quasi figura mitica e metafora di un post-moderno commerciale e disincantato, entrò negli studi di Abbey Road, dove il gruppo stava in fase di pre-presentazione del disco omonimo, disse agli ex compagni di band: "sounds a bit old" e se ne andò e nessuno lo vide più.
E ancora: accordo di chitarra acustica con linea di basso essenziale ed appena percepibile, ripetizione che genera insistenza, atmosfera ancora una volta di riflessione personale. dove - toccato il fondo e venuti ai patti con sè stessi, pur nell'abbandono di qualsiasi soluzione possibile - un anelito di lucidità riporta su, sopra la difficile linea che separa il pensiero dall'azione, il delirio dall'intuizione, l'umano egoismo dal non avere più nulla da perdere. Ancora giri armonici di chitarra, entra un accenno di percussione, proprio come un qualche cosa che entra in movimento, poi qualche accordo di tastiera con pedale, elegiaca, ed infine la voce, profonda calda, come solo la voce nera sa essere, canta un'amara constatazione, vera e inossidabile come la presa di coscienza di un'idea antica, partorita dalla saggezza della Vita. Sono i primi 45 secondi di "Bridges" dell'album "Crossroads" di Tracy Chapman del 1989.
"Sounds a bit old" è vero e dopotutto sono solo canzoni, ma è forma che diventa inscindibile dal contenuto, una dipendenza intima tra suono e canzone, tra testo e musica che insieme riescono a passare oltre il frastuono che ci attornia e ci protegge e colpiscono dritto in quell'area ancora sensibile e, poi, col tempo, può succedere che le possibilità diventino qualche cosa d'altro.
Cosa chiediamo ad una canzone? Io chiedo questo, un sussulto, un pensiero che interpreta e assolve la funzione di mediatore tra il mio presente ed il mio passato, una sorta di lente che esprima, caleidoscopicamente, le sfumature del presente. E la musica, che sfugge liquida ad ogni definizione, diviene, misteriosa forma del tempo....

martedì 14 giugno 2011

Asiatici del quartiere

Abito in un quartiere popolare. Uno dei più malfamati fino a qualche tempo fa, ora in netta espansione e rinnovamento. Gente disoccupata, che si arrangia, case grandi e rattoppate, la polizia che svogliatamente fa la ronda di continuo. Non è raro, la sera, trovarsi a braccetto con qualche prostituta, tremante ed in astinenza di crack che ti chiede 20 $, in cambio di favori. Si trovano ancora preservativi usati sui marciapiedi ed in estate i vicini di giorno si sbraitano improperi dai balconi, di notte vagano ubriachi cantando tra un lampione e l'altro. Eppure al mattino, imbronciate ed assonnate, trovi alla fermata dell'autobus le ragazzine con la divisa del college, segno che comunque c'è voglia di fare. E non appena si scioglie l'inverno, le aiuole sui marciapiedi sono ben curate con fiori e insalata, qua e là, che da un tocco di vita.
Ci sono poi i depanneur, una sorta di negozietti che vendono un po' di tutto, aperti fino a tarda notte, alcuni - i più antichi - che non chiudono mai. Si compra birra, giornali, sigarette, una scatola di tonno, alcuni hanno anche latte e caffé, altri ti fanno dei sandwich, il vino meglio lasciarlo stare perchè di qualità infima, ma in certe sere ci sta.
Ad un angolo di strada da casa mia, una coppia vietnamita tiene un piccolo depanneur che si chiama "Beau soir". Sono giovani, parlano male francese e sbocconcellano l'inglese. Il loro negozio è pulito, in ordine, la radio trasmette musica classica e loro sono sempre sorridenti e gentili. Non mi hanno mai fregato sul resto, neanche pochi spiccioli. Al contrario di tanti, la domenica sono chiusi e nelle sere della settimana, più di una volta, ho trovato chiuso prima dell'orario indicato sulla porta a vetri, io che, affannato, cercavo una birra o una scatoletta di tonno o un barattolo di maionese.... Mi danno l'impressione di essere sereni, un giusto equilibrio tra una vita da piccoli commercianti e la loro vita personale. Li trovo anche belli insieme, molto innamorati. Se già io e la mia combriccola della vecchia Europa fatichiamo nel continente americano, immagino loro, il senso di estraniamento e sradicamento che possono provare mentre d'inverno spalano la neve sul marciapiede, mentre gestiscono i furtarelli degli studenti quindicenni della scuola dell'isolato.
Il villaggio globale è anche questo: una somma di differenze che vivono prossime, a pochi metri di distanza e restano inconoscibili, anche sul lungo periodo.

sabato 11 giugno 2011

Migranti

Ieri sera, una serata come tante. Mi ritrovo seduto in un piccolo giardinetto, a sforchettare insalata su un piattino, a mangiare hamburger cotti a puntino dal cuoco di turno. Intorno a me sento parlare spagnolo, inglese, francese.
L'occasione dell'evento è il compleanno di C. conosciuto al corso di lingua, patrocinato dall'ufficio immigrazione. Tra i presenti, a parte due o tre autoctoni, tutti gli altri vengono da qualche altra parte del mondo per le più diverse ragioni, non sempre le più ovvie.
Un tizio dai tratti marcati delle Ande attira la mia curiosità. Mi racconta di essere cileno, parla senza pregiudizi del nord America, ne confronta i limiti con la tua terra, mi chiede notizie dell'Europa. Gli chiedo perchè sia venuto da queste parti, cosa l'abbia spinto a cambiare emisfero per aprirsi al mondo, tenuto conto che mi raccontava di essere partito per cercare di avere un punto di comparazione con la sua terra. Il dialogo coinvolge anche altri, messicani, canadesi e spagnoli. Iniziano a punteggiare i vari interventi parole come "paesi sottosviluppati", "civiltà", "diritti civili", "strati sociali". La conversazione si scalda. 
Vedendo il clima appassionato, chiedo perchè si abbia la percezione che il nord America sia un paese del primo mondo, in fondo tutti noi, anche se sono passati qualche anno dal nostro arrivo, viviamo tutti una situazione precaria, già il momento stesso che stiamo vivendo attorno ad un tavolo disseminato di birre e bicchieri vuoti ne è una testimonianza. Parole come "integrazione", "futuro", "partecipazione" - sempre che queste parole possano essere considerate come indicatori di una vera presa di posizione all'interno della società e quindi un simbolo di una presa di coscienza d'appartenenza "politica" - non sono ancora ben assestate nel nostro presente e mi chiedo se lo saranno mai. Se cercavamo qualche cosa, non ho l'impressione che l'abbiamo veramente trovata, o almeno, a me personalmente sembra di no. Non che ci siano voglie latenti di tornare indietro, ma la partita resta aperta. Accenno anche un'ipotesi di analisi del perchè il cosiddetto primo mondo ora possa permettersi di tenere le frontiere aperte ed essere considerato mondialmente un "paese d'accoglienza": l'immigrazione può essere un grande business, che si nutre di speranze e dell'energia vitale di tanti che legittimamente sperano una condizione migliore.
Alla fine, i toni si accendono ancora di più, i malintesi dei pensieri travasati in diverse lingue si accavallano, c'è qualcuno che si offusca, un poco ebbro qualcun altro sbatte contro la zanzariera tirata sul varco della cucina, si ride, si fuma e si rompe qualche bicchiere.
Ci sono molte parole e molte vite, ma abbiamo solo i nostri giorni per cercarle o trovarle. Non è male sapere che non siamo soli.

sabato 21 maggio 2011

Prevenzione

Alt - Stop - Vietato oltrepassare - Vietato parlare - Si prega di non disturbare - Divieto d'accesso - Limte di velocità massima a.... - Limite di velocità minima a... - Vietato mangiare pizze o gelati - Si prega di non sputare - Vietato fumare - Vietato parcheggiare dalle... alle... - Non gridare - Vietato suonare il clacson - Si prega di non parlare al conducente - Si prega di non guardare il conducente - Vietato toccare - Vietato nuotare - Vietato tuffarsi - Vietato dare da mangiare agli orsi, ai piccioni, alle capre, agli scoiattoli, ai procioni, ai cervi, agli alligatori - Si prega di stare in silenzio - Vietato vietare - Si prega di non toccare - Si prega di non fare gestacci - Vietato suonare ripetutamente - Non correre - Vietato oltrepassare la linea gialla, la linea blu, la linea bianca - Vietato gettare oggetti fuori dalla finestra - Vietato gettare i mozziconi per terra - Si prega di lasciare le armi all'entrata - Vietato guidare a fari spenti - Si prega di non urlare - Non parlare a voce alta - Vietato telefonare, citofonare, saltare, sporgersi, cadere, fischiettare - Si prega di non insultare l'impiegato preposto alle informazioni - Vietato lasciare detriti in  questo posto - Vietato imbrattare i muri - Vietato guardare - Divieto di sosta - Vietato contraddire il capo - Vietato cambiare canale senza previa autorizzazione - Vietato giocare - Vietato baciarsi - Vietato bestemmiare - I responsabili saranno perseguiti secondo le leggi vigenti di questo stato - la legge è uguale per tutti.

mercoledì 18 maggio 2011

Ambivalenze

"Potremmo definirla ambiguità, o zona grigia - dal famoso saggio di Levi - o ancora più tecnicamente polisemia, o equivocità (brutta parola all'orecchio!). Ambivalenza, o meglio al plurale ambivalenze, giusto per complicare ulteriormente, sembra quasi non avere connotati negativi, cosa che invece hanno tutti i suoi sinonimi, più o meno, senza scadere nel tecnicismo lessicale, dove allora il politically correct la fa da padroni e si dimentica pure di avere un sesso, un corpo e il mal di pancia, se si mangia troppo. Ne prendi uno e ne paghi due, di sensi, di sensazioni, di significati, di guai, soprattutto di guai. Non se ne può mai fare a meno. Eppure non me ne posso privare, ho bisogno di questo strabismo, di questo punto d'incontro, di questo ying e yang, della ruota che gira. - La coerenza... - mi dicevano, ma non mi hanno mai spiegato tutto il resto, la capacità di giudizio, l'accusa e la difesa, il processo dialettico, Dante e Boccaccio, la legge del pendolo. E neppure Vita-Morte, luce-tenebre, angeli-demoni, alto-basso, Sole-Luna.... Non ne posso fare a meno, ho bisogno di fango, di contaminazione, dell'eccesso che diviene minoranza, dell'ombra luminosa, dell'arcobaleno quando piove. Uno, nessuno, centomila, contrario alla rigidità del digitale, all'ipotesi pop della serigrafia, al colpo di coda positivista dell'ipertecnologizzazione. Ho ancora attenzione per il bisbiglio, il silenzio, il delirio. Ho bisogno della variante inclusiva, che non sottrae la contraddizione, ma la mantiene necessariamente nel processo dinamico, ho bisogno del contraddittorio politico che fondi un nuovo punto di vista, nel tempo, nell'azione, nel sangue e nella testa dell'uomo qualunque.  Non mi fido delle posizioni assolute, diventano spesso il contrario, delle certezze forti, mi sembrano ostentazione di debolezza, la luce abbagliante non ci fa vedere.... Che resta - allora - di tutto quanto?
Una luce ancora accesa all'alba, un tavolaccio unto, qualche cosa da bere per giocare l'insonnia, ancora qualche minuto per guardarci e poi il treno parte, o l'aereo volerà, o qualcuno, a bordo strada, pur si fermerà e tra partire e lasciare ancora non lo so che fare, ma sono qua...."
[Monologo per un sordo]

lunedì 9 maggio 2011

Naufraghi senza frontiera

M. Mazzavillani

Bimbi fragili, innocenti ed un po' affamati,
che sognavate di correre fra i prati,
senza colpe ma soltanto per sventura,
l'ultimo grido lo avete lanciato alla paura.
Donne cresciute in balia della corrente,
abituate ad avere tutto e niente,
condannate a lottare nella sorte,
per volere di chi vi ha spinto fino alla morte.
Padri di famiglie disgregate,
per sfamarle voi le avete abbandonate,
ed a casa mentre si nutrono di sogni,
i vostri corpi sono pasto per i tonni.
Maledetta la bilancia della vita,
che nessuno sulla terra può additare,
vite inermi cercavate via di uscita,
mentre oggi riposate in fondo al mare!
 [A. Gatto]

martedì 12 aprile 2011

Bloggers

No, non fraintendetemi. Non scrivo per polemizzare, criticare, inneggiare o altro. Le semplificazioni o gli estremismi li lascio volentieri a chi si diverte ad essere sotto i riflettori. Non ho mai avuto la vocazione del one man show e quando è capitato, mi cucivo addosso una maschera per cercare di nascondere il disagio che si prova ad essere dati in pasto al voyeurismo degli spettatori. Anche nelle discussioni intorno ad un tavolo, a volte mi annoio: le dinamiche sono spesso quelle della giungla e la logorrea è una tecnica raffinata per esaurire il tempo (come quando da piccolo giocavo a Street Fighter: contro gli avversari più difficili, non appena ero in vantaggio mi chiudevo in una difesa eroica ed inespugnabile, saltellando qua e là per lo schermo in attesa che il tempo scadesse... era patetico, ma a volte funzionava! A volte...).
Quello che voglio dire è che la rete è una vera manna per chi soffre d'insonnia e a cui piace leggere "underground" e cioè dalle righe del perfetto anonimo.
Non parlo del blog seri, di quelli che hanno migliaia di visite, che sono ben altra cosa ed applicano una deontologia alquanto serrata. Mi riferisco piuttosto a coloro che per noia o solitudine tengono un blog. Di solito c'è un tema, o una mission, normalmente però diviene un giornale intimo, con le sue polemiche, con i suoi alti e bassi, quasi sempre incomprensibile ai più, che non partecipano (fortunati loro!) alle vicende personali dello "scrittore". Ci sono alcuni poi, che assurdamente pretendono il "lei" nei commenti e non rispondono al commento "anonimo"; ci sono altri che pensano sia originale scrivere come il giovane Werther e sembra che si ricordino di pubblicare i loro sedicenti decisivi post solo quando vivono situazioni a loro giudizio catastrofiche; altri ancora si atteggiano a tuttologi e divengono dei coacervi di luoghi comuni, abbastanza banali ed abbastanza penosi.
In qualunque maniera si decida di scrivere o tenere un blog, è essenziale tenere presente che potrebbe essere chiunque a leggerti: dal quindicenne annoiato che naviga alla ricerca di chissà quale senso delle cose, alla casalinga che si riposa un po' allo schermo prima di preparare la cena ai figli con i quali non riesce nemmeno più a comunicare, all'eterno sfaccendato che utilizza il web come metodo di intrattenimento quotidiano e vuole stare in pantofole fino a notte alta a leggere senza impegno. E' chiaro che la scrittura è una strana bestia: il vissuto personale transpare sempre, volenti o nolenti. Per chi ha "orecchio" stilistico, e la pazienza dell'ascoltatore, un aggettivo, un ritmo, una determinata semantica, possono aprire ipotesi di scorci inaspettati.
In un dialogo (o monologo) è di solito più interessante quello di cui non si parla e che resta sottinteso, di quello che viene esplicitato.
La domanda che mi pongo è: questo vale anche per un blog?
La mia è anche una riflessione sul mio, di blog. Ritenendo che le cose preziose sono le più superflue, ho l'arroganza di dire che non è assolutamente necessario scrivere questo blog. E sorrido d'ironia.
Chiudo con un piccolo video sull'insolito e l'impossibile tratto da "L'Amico di Famiglia".
Notate come Sorrentino contorce il linguaggio cinematografico classico del campo-controcampo in un ritmo di primi piani ravvicinati o meno che scandiscono il dialogo in una dipanatura di senso sia diegetico che estetico sempre più raffinata, fino allo scioglimento finale.
Godetevelo e, nel caso, rivedetevi il film.


venerdì 25 marzo 2011

Biblioteche

Qualche giorno fa, un amico mi ha proposto due pannelli di scaffali della sua biblioteca. Lui doveva disfarsene, dato che ritorna nel vecchio continente per suggellare l'unione con la sua fidanzata con un rito, civile o religioso poco importa. Colta l'occasione al volo, mi faccio prestare un furgoncino e nel primo tepore della primavera porto a casa - tutto contento - i nuovi mobili. Il fatto poi che siano stati usati da una persona che conosco, li rende ancora più preziosi. Qualche cosa di già familiare.
Ricordo che quando partii per il nuovo continente,  avevo circa quaranta chili di cargo inviati per mare e una trentina nei miei bagagli. Salami e prosciutti furono sequestrati alla dogana, la grappa e il limoncello furono distribuiti e bevuti nel giro di poco, i vestiti si cambiano abbastanza rapidamente. Negli scatoloni spediti tramite la Posta Italiana via mare, c'erano quasi esclusivamente libri. Non ce l'avevo fatta a staccarmi, già alcuni pacchi erano riposti a malincuore nella cantina dei miei genitori e la separazione si fa ancora sentire ogni volta che passo a trovarli. Ricordo che passai un tempo esagerato a sceglierli uno per uno ed alcuni li cerco ancora, sapendo perfettamente che sono dall'altra parte dell'Atlantico.
Prima dell'arrivo dei nuovi scaffali, i libri erano ammassati nella mia stanza abbastanza ordinatamente in uno scaffale di vimini intrecciato, riposti su più file, e per terra, con il dorso in vista e alla prima occhiata facevano l'effetto di un bordo multicolore al muro. Con i nuovi scaffali, ora hanno tutto lo spazio che desiderano: i saggi, ordinati per soggetto, i libri in lingua, per autore, romanzi, racconti e poesie per ordine logico. Considerato che ho la credenza che quando non sono presente le cose si animano, ho elaborato uno speciale criterio totalmente soggettivo per classificare le opere: gli autori devono sapersi parlare fra loro, in qualche modo, o per età o per soggetto o per affinità di stile: Mishima non potrebbe mai stare vicino a Cèline, ma bensì si avvicina più a Busi, il carteggio di Henry Miller e Anais Nin può ben essere avvicinato a Orwell e non lontano da Bowles e Musil. Ho poi trovato alcuni doppioni: ho scoperto infatti di possedere due copie di "La chute" di Camus, di "Lezioni spirituali per giovani samurai" di Mishima, di "Dans la dèche à Paris et à Londres" di Orwell. Ho scoperto anche di possedere un romanzo della collana Harmony, un libro rilegato scritto in ebraico del 1901 ed un paio che non ricordo di aver mai comprato e provengono sicuramente da qualche biblioteca altrui.
Sono molto soddisfatto ora di poter avere la mia biblioteca per intero, in un sol colpo d'occhio. Mi fa sentire più tranquillo e, come ha osservato una cara persona, visto che una biblioteca è qualche cosa che si sposta difficilmente, potrei interpretare questa sensazione come un simbolo di radicamento. È una bella immagine quella della biblioteca come segno di radicamento: "io sono dov'è la mia biblioteca!".
Peccato che mi tocca traslocare tra pochi mesi!

mercoledì 23 marzo 2011

Tempo che fugge

Sono passati ormai più di quattro anni dal giorno che all'aeroporto di Heathrow, durante lo scalo da Malpensa in direzione Montreal, mi resi conto, quasi d'improvviso, che la mia Vita prendeva una direzione ben precisa. O almeno così mi pareva in quel momento. Poi, da quel giorno ad oggi, sono successe tante cose, alcune abbastanza ordinarie, altre un po' meno. Visi che sono spariti dalla mia vita - e non solo per la lontananza - altri che sono apparsi, altri ancora che sono passati nel mio presente e subito erano già altrove. 
Ho una memoria discreta: ricordo molto, non tutto, ma molte cose sia prima di quella data all'aeroporto - e tutto il sussulto d'emozioni che si agitava dentro - sia (quasi) tutto quello che mi è capitato di vivere fino a questa notte. Ci sono poi sensazioni che sono ricorrenti: il cielo agitato di Amman, il profilo della città di Tiblisi quando si fa sera, intravisto dalla finestra della guest house dove alloggiavo, la sera in cui andammo al Nikala a bere vino, il rumore del fango sotto i miei scarponi, all'alba, nelle vigne del Saint Emilian, la gioia dei giorni di viaggio in autostop, il silenzio delle navi a notte alta. Aeroporti, alberghi, capitali, tutto questo è arrivato dopo. All'inizio c'era il vento, i pianti alla fine delle vacanze, il sudore delle corse nei prati, le ricreazioni ad arrampicarsi sugli alberi e camminare sul muro di cinta del convitto.
Se penso a chi c'era ed a chi c'è ora, mi vengono i brividi. Ma il discorso non vale, perchè sono io che sono sempre partito, da qualsiasi parte me ne sono andato. Sempre. E raramente sono tornato. Ed, in fondo, ho ancora voglia di ripartire e lasciar perdere tutto quel poco o nulla che ho sempre costruito e riportarmi a quota zero. Ancora una volta. O forse no.

lunedì 14 marzo 2011

Sgelo

Lentamente sulla terrazza la neve fonde e cede il posto ai detriti dell'autunno passato. La coltre morbida ed ondulata  degrada in forme arrotondate e giorno dopo giorno si riduce in blocchi di ghiaccio più ostinato, ma che nulla possono contro il progressivo aumento della temperatura. Per le strade, qua e là alla base degli alberi, brandelli di terra esausta dell'inverno e trasudante d'acqua sporca, intacca di pozze di colore smorto il bianchiccio dell'inverno, già contaminato dalle scorie della città. Ancora in attesa, gli umani si aggirano indaffarati per le vie, una nuova tensione nell'aria, un ultimo sforzo di resistenza.
Personalmente, ogni mattina, dopo il primo caffè, con la pala e l'energia rinnovata dal progressivo calore, intacco la coltre di ghiaccio per fare posto al colore, al calore, al rinnovamento che sento flebile vibrare nell'aria. Quasi sollevato, quasi riconfortato, che un altro inverno sembra essere alle spalle. Eppure, nel profondo delle fibre dell'essere, quel fondo di durezza che mi spingeva nel freddo siderale ad ammirare la crudezza del gelo, rimane inattaccabile, in attesa di tornare a danzare sulle lastre levigate delle prossime nevicate, di un futuro distante e ancora inaccessibile. Forse la crosta si fa più dura, forse la dimensione del freddo si fa più intima con il passare degli anni. E la stagione in mutamento, sembra che non sia che un colore nella tavolozza complessa e sfumata di un pianeta in rivoluzione costante, in una Natura ignota.

giovedì 17 febbraio 2011

Limiti

La prima volta che feci esperienza del vero senso del limite ero a capo de Roca, in Portogallo. Ricordo il vento, la vegetazione verdissima e l'orizzonte. Capo de Roca è la punta estrema occidentale del continente euroasiatico che da sull'oceano Atlantico. Era anche la prima volta che vedevo l'oceano, mugghiante, selvaggio, molto più violento di qualsiasi mare, Mediterraneo, Egeo, Adriatico che sia. Capo de Roca è una scogliera di 140 metri a picco sulla distesa d'acqua ed il vento crea una tale resistenza che ci si può temerariamente lasciarsi andare a corpo morto dalla scogliera e si rimane sostenuti dalla corrente impetuosa d'aria che risale vorticosa le pendici. Una strana sensazione. Ricordo che c'era una semplice staccionata di legno che separava dal ciglio, barriera che avevamo saltato, da imprudenti, per sbirciare l'abisso che ci separava dalle onde e dalla schiuma.
Da lì non si può più proseguire. Eppure lo sguardo travalica il limite e si perde lontano. Prima di arrivarci, avevo passato diverse frontiere; ero giovane, senza documenti, senza soldi, non avevo mai preso un aereo e leggevo l'Ulisse di Joyce, come fosse un romanzo di Salgari, eppure quella sensazione di barriera, di sbarramento invalicabile per le mie forze di allora mi si attaccò alla pelle. 
L'ultima volta che provai un'emozione simile, c'era ancora l'Atlantico di fronte a me, ma questa volta ero dall'altra parte e guardavo verso est. Ero alla punta estrema del parco Forillon, in Gaspesie, Canada. Ancora una scogliera, ancora il vento e la linea dell'orizzonte. Ero solo, vestito in maniera improbabile per una escursione in un parco enorme e stavo vivendo il mio periplo della penisola con un vecchio Ford che al momento in cui scrivo ha già tirato le cuoia. Anche lì c'era una staccionata di delimitazione, ma questa volta, mi limitai ad arrampicarmici sopra, per godermi il panorama da più in alto.
I limiti esistono, ma servono per sporgersi ed guardare oltre.
Per andare, il giorno che ci si sente pronti.

lunedì 14 febbraio 2011

Disgusto

Questa notte non entrerò nel merito estetico del rapporto fisico tra la sensazione del rigetto e la realtà che la provoca. Non ci sono abbastanza parole per il posizionamento che la politica italiana provoca nello specchio della stampa internazionale, trasversalmente al contesto storico-sociale che stiamo attraversando, nell'intimo delle situazioni vive di ogni persona minimamente implicata nell'osservazione dei processi che ci circondano. 
Siamo già nel giorno dopo. 
Il 13 febbraio, vigilia di san Valentino, è stata una giornata che ha ripercussioni epocali nella storia del nostro paese. L'ho seguita mediaticamente, una rassegna stampa dei principali giornali, attendo qualche approfondimento dalle riviste geopolitiche e dagli analisti che seguo.
Disgusto è il titolo di questo post.
Disgusto è la prima sensazione di rivolta, di reazione, d'identificazione dell'altro, alla situazione che sembra essere la norma. Una protagonista di questa vicenda scriveva in una rubrica dedicata a lei, di nuovissima concezione, di fiabe e di desiderio di dialogo. Non c'è più dialogo con la sensazione di disgusto. Siamo uomini e donne, siamo emotività e azione, siamo terra e cielo. La sensazione di disgusto porta alla mancanza di diplomazia, l'orrore porta alla fuga, a sensazioni primitive, vere, vive. Di rigetto di una situazione che si è protratta già troppo a lungo.
Era qualche cosa che restava nella pelle, il presagio, il deposito nella memoria e nel sedimentato. La tolleranza è esaurita, i margini di dialogo sono stati spossati, non ci sono più.
Non è strumentalismo. E' un popolo che oggettivizza il disagio - ed è già eufemismo - di una presa di posizione unilaterale ed individuale che non si accetta. Si reagisce, si scende in piazza, e qualche cosa deve cambiare. E presto.
Per evitare frange estremiste, per evitare i gruppuscoli che non sono più di manipolati, ma che divengono manipolatori. L'estensione del domino della lotta, citando uno scrittore critico della società contemporanea. L'elastico troppo teso si allunga ancora, prima di spezzarsi.
Dignità, senso di appartenenza, memoria, assunzione di responsabilità. E umiltà. Umiltà nell'ascolto, nella presa di coscienza. Accettazione delle conseguenze.E tutti noi ne siamo partecipi. Che si voglia o no, siamo tutti presi nella manifestazione dello spettacolo. Nessuno escluso e ciascuno ha la sua parte.
Ovunque sia.

domenica 6 febbraio 2011

Nord


Ci sono dei momenti dove quasi mi scordo di essere "altrove", altri dove la violenza degli elementi non mi lascia alcuna chance di pensarmi a casa. Sabato sera, debbo raggiungere degli amici in un ristorante portoghese in centro. Ho consigliato io il posto, ambiente famigliare, uno dei migliori polli alla brace della città, servizio frizzante e preciso. Impermeabile, scarpe da ginnastica isolate, siamo leggermente sotto zero, quindi a queste latitudini non è freddo. Entro nell'autobus che nevischia appena. Esco dalla metropolitana in centro ed è scoppiata la tormenta. La neve cade fitta, silenziosa, farinosa. Mezzo isolato e sono ricoperto di bianco, le mani intirizzite che litigano con i bottoni dell’impermeabile e subito rinunciano ad evitare di tenere al riparo il maglione. Il vento fa il resto: acceca e fa vacillare i passi, già esitanti nella coltre nevosa che velocemente si accumula sui marciapiedi semi deserti. Non fa freddo. A parte il fastidio dei fiocchi che si sciolgono nel colletto, si respira bene, l'aria è pura, cristallina, leggera. Un senso di euforia e gioia m'invade, mi sento parte di qualche cosa vivente, silenzioso, la notte vive, il traffico è più lento, continuo, sotto il cappuccio intravedi i sorrisi dei giovani ed anche la lentezza degli anziani ha un qualche cosa di gaio, pur se faticoso. 
C'è qualche cosa di austero e affilato nel Nord. Il gelo siderale sconfigge il movimento, la neve copiosa attutisce ogni suono, le molteplici tonalità di bianco elidono ogni altro cromatismo. Solitudine e silenzio, letargo, lo sforzo continuo di sentirsi vivi, la crudeltà del freddo, l'inumanità dell'ambiente inospitale. Silenzio, silenzio di stasi, raccoglimento, intimità, congelamento, ipotermia, purezza e freddo. Poesia nuda, senza aggettivi né avverbi, scheletrica come le trame nere dei tronchi, essenziale, rarefatta, scintillante, come le stelle nel cielo nero di cristallo. Il Nord sconfigge, segna la pelle e il viso, eppure esalta la sensazione primordiale della sopravvivenza, dell'essenzialità, una solidarietà colma di silenzio, di presenza, di condivisione di un presente inospitale. Il Nord è anche attenzione ad ogni gesto, contemplazione nella solitudine, esperienza di dialogo intimo, contatto con il proprio respiro e sofferenza nello sforzo, economia d'energia.
Anche per questo a primavera, le terrazze saranno invase al primo sole, le ragazze porteranno gonne corte, si leveranno in brindisi i boccali ed i bicchieri e l'eccitazione del primo tepore inonderà i parchi cittadini ed i locali di ritrovo. Una tensione si attenua, come il ricordo di un sogno intenso la mattina, ma di cui sentiamo depositarsi nel profondo, come assopito, la sensazione netta della sua gelida presenza.
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