giovedì 17 febbraio 2011

Limiti

La prima volta che feci esperienza del vero senso del limite ero a capo de Roca, in Portogallo. Ricordo il vento, la vegetazione verdissima e l'orizzonte. Capo de Roca è la punta estrema occidentale del continente euroasiatico che da sull'oceano Atlantico. Era anche la prima volta che vedevo l'oceano, mugghiante, selvaggio, molto più violento di qualsiasi mare, Mediterraneo, Egeo, Adriatico che sia. Capo de Roca è una scogliera di 140 metri a picco sulla distesa d'acqua ed il vento crea una tale resistenza che ci si può temerariamente lasciarsi andare a corpo morto dalla scogliera e si rimane sostenuti dalla corrente impetuosa d'aria che risale vorticosa le pendici. Una strana sensazione. Ricordo che c'era una semplice staccionata di legno che separava dal ciglio, barriera che avevamo saltato, da imprudenti, per sbirciare l'abisso che ci separava dalle onde e dalla schiuma.
Da lì non si può più proseguire. Eppure lo sguardo travalica il limite e si perde lontano. Prima di arrivarci, avevo passato diverse frontiere; ero giovane, senza documenti, senza soldi, non avevo mai preso un aereo e leggevo l'Ulisse di Joyce, come fosse un romanzo di Salgari, eppure quella sensazione di barriera, di sbarramento invalicabile per le mie forze di allora mi si attaccò alla pelle. 
L'ultima volta che provai un'emozione simile, c'era ancora l'Atlantico di fronte a me, ma questa volta ero dall'altra parte e guardavo verso est. Ero alla punta estrema del parco Forillon, in Gaspesie, Canada. Ancora una scogliera, ancora il vento e la linea dell'orizzonte. Ero solo, vestito in maniera improbabile per una escursione in un parco enorme e stavo vivendo il mio periplo della penisola con un vecchio Ford che al momento in cui scrivo ha già tirato le cuoia. Anche lì c'era una staccionata di delimitazione, ma questa volta, mi limitai ad arrampicarmici sopra, per godermi il panorama da più in alto.
I limiti esistono, ma servono per sporgersi ed guardare oltre.
Per andare, il giorno che ci si sente pronti.

lunedì 14 febbraio 2011

Disgusto

Questa notte non entrerò nel merito estetico del rapporto fisico tra la sensazione del rigetto e la realtà che la provoca. Non ci sono abbastanza parole per il posizionamento che la politica italiana provoca nello specchio della stampa internazionale, trasversalmente al contesto storico-sociale che stiamo attraversando, nell'intimo delle situazioni vive di ogni persona minimamente implicata nell'osservazione dei processi che ci circondano. 
Siamo già nel giorno dopo. 
Il 13 febbraio, vigilia di san Valentino, è stata una giornata che ha ripercussioni epocali nella storia del nostro paese. L'ho seguita mediaticamente, una rassegna stampa dei principali giornali, attendo qualche approfondimento dalle riviste geopolitiche e dagli analisti che seguo.
Disgusto è il titolo di questo post.
Disgusto è la prima sensazione di rivolta, di reazione, d'identificazione dell'altro, alla situazione che sembra essere la norma. Una protagonista di questa vicenda scriveva in una rubrica dedicata a lei, di nuovissima concezione, di fiabe e di desiderio di dialogo. Non c'è più dialogo con la sensazione di disgusto. Siamo uomini e donne, siamo emotività e azione, siamo terra e cielo. La sensazione di disgusto porta alla mancanza di diplomazia, l'orrore porta alla fuga, a sensazioni primitive, vere, vive. Di rigetto di una situazione che si è protratta già troppo a lungo.
Era qualche cosa che restava nella pelle, il presagio, il deposito nella memoria e nel sedimentato. La tolleranza è esaurita, i margini di dialogo sono stati spossati, non ci sono più.
Non è strumentalismo. E' un popolo che oggettivizza il disagio - ed è già eufemismo - di una presa di posizione unilaterale ed individuale che non si accetta. Si reagisce, si scende in piazza, e qualche cosa deve cambiare. E presto.
Per evitare frange estremiste, per evitare i gruppuscoli che non sono più di manipolati, ma che divengono manipolatori. L'estensione del domino della lotta, citando uno scrittore critico della società contemporanea. L'elastico troppo teso si allunga ancora, prima di spezzarsi.
Dignità, senso di appartenenza, memoria, assunzione di responsabilità. E umiltà. Umiltà nell'ascolto, nella presa di coscienza. Accettazione delle conseguenze.E tutti noi ne siamo partecipi. Che si voglia o no, siamo tutti presi nella manifestazione dello spettacolo. Nessuno escluso e ciascuno ha la sua parte.
Ovunque sia.

domenica 6 febbraio 2011

Nord


Ci sono dei momenti dove quasi mi scordo di essere "altrove", altri dove la violenza degli elementi non mi lascia alcuna chance di pensarmi a casa. Sabato sera, debbo raggiungere degli amici in un ristorante portoghese in centro. Ho consigliato io il posto, ambiente famigliare, uno dei migliori polli alla brace della città, servizio frizzante e preciso. Impermeabile, scarpe da ginnastica isolate, siamo leggermente sotto zero, quindi a queste latitudini non è freddo. Entro nell'autobus che nevischia appena. Esco dalla metropolitana in centro ed è scoppiata la tormenta. La neve cade fitta, silenziosa, farinosa. Mezzo isolato e sono ricoperto di bianco, le mani intirizzite che litigano con i bottoni dell’impermeabile e subito rinunciano ad evitare di tenere al riparo il maglione. Il vento fa il resto: acceca e fa vacillare i passi, già esitanti nella coltre nevosa che velocemente si accumula sui marciapiedi semi deserti. Non fa freddo. A parte il fastidio dei fiocchi che si sciolgono nel colletto, si respira bene, l'aria è pura, cristallina, leggera. Un senso di euforia e gioia m'invade, mi sento parte di qualche cosa vivente, silenzioso, la notte vive, il traffico è più lento, continuo, sotto il cappuccio intravedi i sorrisi dei giovani ed anche la lentezza degli anziani ha un qualche cosa di gaio, pur se faticoso. 
C'è qualche cosa di austero e affilato nel Nord. Il gelo siderale sconfigge il movimento, la neve copiosa attutisce ogni suono, le molteplici tonalità di bianco elidono ogni altro cromatismo. Solitudine e silenzio, letargo, lo sforzo continuo di sentirsi vivi, la crudeltà del freddo, l'inumanità dell'ambiente inospitale. Silenzio, silenzio di stasi, raccoglimento, intimità, congelamento, ipotermia, purezza e freddo. Poesia nuda, senza aggettivi né avverbi, scheletrica come le trame nere dei tronchi, essenziale, rarefatta, scintillante, come le stelle nel cielo nero di cristallo. Il Nord sconfigge, segna la pelle e il viso, eppure esalta la sensazione primordiale della sopravvivenza, dell'essenzialità, una solidarietà colma di silenzio, di presenza, di condivisione di un presente inospitale. Il Nord è anche attenzione ad ogni gesto, contemplazione nella solitudine, esperienza di dialogo intimo, contatto con il proprio respiro e sofferenza nello sforzo, economia d'energia.
Anche per questo a primavera, le terrazze saranno invase al primo sole, le ragazze porteranno gonne corte, si leveranno in brindisi i boccali ed i bicchieri e l'eccitazione del primo tepore inonderà i parchi cittadini ed i locali di ritrovo. Una tensione si attenua, come il ricordo di un sogno intenso la mattina, ma di cui sentiamo depositarsi nel profondo, come assopito, la sensazione netta della sua gelida presenza.

venerdì 4 febbraio 2011

Cristallizzazioni di movimento e quinta dimensione


Sollecitato dall'inedia della ricerca di un'occupazione, osservavo oggi un candelotto di ghiaccio che pende dalla tettoia di fronte alla finestra della mia lavanderia: il candelotto è tutto storto, in più punti e disegna un'improbabile S che scintilla nel freddo del pomeriggio nord-americano. Probabilmente, si è formato con differenti correnti d'aria, che giocano strani tiri nel rigirarsi furenti nell'angolo della terrazza. Il colpo d'occhio è assai singolare: da un lato i candelotti "normali" dritti, appuntiti ed immobili, al margine della tettoia questo sgorbio di ghiaccio che dondola, pencolante al filo da stendere un po' molle. Mi piace pensare che sia una cristallizzazione di movimento, non me ne vogliano gli scientifici se la semantica non è corretta.
Cristallizzazione di movimento è un ossimoro abbastanza evidente. Ma non bisogna intimorirsi, né ritrarsi inorriditi se la contraddizione sorge alla superficie del visibile anche sulla mia terrazza. Con un po' di allenamento ne possiamo cogliere molti esempi in ogni altro aspetto del nostro vissuto e, ultimamente sempre di più, riesco ad apprezzarne le involuzioni insolubili. Sì, perché la dicotomia tra positivo e negativo (in senso fisico, elettrico per capirci) e il suo declinarsi in ogni aspetto del nostro mondo fino ai recessi non così teorici della materia e dell'antimateria (seguo un po' trepidante la manipolazione dei 38 atomi d'antimateria d'idrogeno al Cern di Ginevra, la cosa in sé mi sconvolge, ma da piccolo non dormivo la notte pensando alle influenze gravitazionali dei pianeti...) è la dimensione del nostro esistere e il moto pendolare tra un polo ed il suo opposto, la cifra della nostra esistenza.
E la tridimensionalità? Sento già l'eco delle mie stesse domande.
La tridimensionalità è questo movimento pendolare tra un polo ed il suo opposto, una gravitazione, piuttosto, come il candelotto che in condizioni speciali (uniche?) cristallizza tutto storto e manifesta così l'unicità del suo essere in quel punto preciso (è sempre acqua in fondo, più o meno sporca, congelata, ma il fatto che sia gelata come una biscia trafitta lo rende ai miei occhi più "simpatica" come il diverso mi risulta epidermicamente più "simpatico" dell'uniforme).
E allora? Leggo negli occhi sgomenti di un annoiato surfer del web.
Ma è evidente che la cristallizzazione del movimento ci porta pindaricamente (ma nemmeno molto) a considerare l'astrazione della 5 dimensione. Ritorniamo al nostro ghiacciolo: se il cornicione è il punto d'inizio A e il pavimento il punto di fine B, tra A e B c'è uno spazio gestito, in assenza di vento, solo dalla forza di gravità che fa cadere la goccia da A a B in un certo tempo T. Ora, la goccia non arriva mai a B, perché durante T il clima terribile nord-americano (settimana scorsa abbiamo sperimentato temperature fino a - 40°) la congela istantaneamente e di qui la possibilità di candelotti a S in presenza di elementi di alterazione e, in questo caso, di vento. La 5 dimensione è intuitivamente rappresentata dal candelotto che arriva a terra, ma prodotto da una sola goccia o meglio dal sommarsi di tutti gli istanti e le possibilità di cristallizazione da gelo della goccia nel suo periplo da A a B. La 5 dimensione è l'insieme dei tempi T in tutte le sue possibilità della goccia di arrivare da A e B, sollecitata dalla forza di gravità e da tutti gli agenti atmosferici conseguenti (senza dimenticare la posizione particolare nell'angolo della terrazza e probabilmente anche la presenza non lontana del comignolo del vicino di sotto).
Nessun timore: io della teoria di Kaluza (mi pare il primo a parlare di penta dimensione in fisica, senza candelotti di ghiaccio ed in odore di eresia per la teoria quantistica) non ricordo granché, ho cambiato troppi professori di matematica per avere delle solide basi, la mia preparazione scientifica al di là della logica formale (e anche quella...) si riduce a qualche cosa molto simile agli algoritmi esplicitati nei libri di cucina, ma il concetto - creativo? - che mi affascina è la possibilità ed il suo limite con la realtà. Realtà che poi è sempre passato, mentre la possibilità è sempre sfuggente nel presente, e debordante nel tempo che non è ancora.
Questo chiaramente pone dei problemi di vita quotidiana che si confondono con un accidia inveterata o una mononucleosi galoppante. Invece è solo fascino della possibilità, ma una possibilità che nel suo "cristallizzarsi" in realtà ci determina, rendendoci o simili al cavatappi di ghiaccio appeso fuori alla mia finestra o altro ancora.
Le ricadute concrete del ghiacciolo della terrazza?
Per il momento o aspettiamo primavera, oppure formulatevele da voi!
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