sabato 18 giugno 2011

"Sounds a bit old"

Zapping, una vecchia radio valvolare, con l'inconfondibile fruscio di polvere nella manopola che viene girata, spezzoni di un dialogo di un futile dramma radiofonico, poi qualche secondo di musica sinfonica,  ed infine qualche accordo di chitarra acustica, sulla quale l'attenzione sembra focalizzarsi. Rumori bianchi, oltre al fruscio elettrostatico dell'apparecchio, un colpo di tosse, quasi un singhiozzo, atmosfera intima, solitaria, riflessiva. Sui giri di accordi della chitarra radiofonica, una seconda chitarra si aggiunge questa volta viva e presente, un contrappunto timido, ma nitido che completa le linee armoniche, quasi che il ricordo suscitato dalla radio si cristallizzi in un istante di nostalgia. L'avrete senz'altro riconosciuto: sono i primi inconfondibili 60 secondi di "Wish you were here" dei Pink Floyd del 1975, realizzata da David Gilmour in memoria di Syd Barrett, che in un'improbabile apparizione il 5 giugno di quello stesso anno, calvo, grasso - aveva solo 29 anni - e con una busta della spesa in mano, quasi figura mitica e metafora di un post-moderno commerciale e disincantato, entrò negli studi di Abbey Road, dove il gruppo stava in fase di pre-presentazione del disco omonimo, disse agli ex compagni di band: "sounds a bit old" e se ne andò e nessuno lo vide più.
E ancora: accordo di chitarra acustica con linea di basso essenziale ed appena percepibile, ripetizione che genera insistenza, atmosfera ancora una volta di riflessione personale. dove - toccato il fondo e venuti ai patti con sè stessi, pur nell'abbandono di qualsiasi soluzione possibile - un anelito di lucidità riporta su, sopra la difficile linea che separa il pensiero dall'azione, il delirio dall'intuizione, l'umano egoismo dal non avere più nulla da perdere. Ancora giri armonici di chitarra, entra un accenno di percussione, proprio come un qualche cosa che entra in movimento, poi qualche accordo di tastiera con pedale, elegiaca, ed infine la voce, profonda calda, come solo la voce nera sa essere, canta un'amara constatazione, vera e inossidabile come la presa di coscienza di un'idea antica, partorita dalla saggezza della Vita. Sono i primi 45 secondi di "Bridges" dell'album "Crossroads" di Tracy Chapman del 1989.
"Sounds a bit old" è vero e dopotutto sono solo canzoni, ma è forma che diventa inscindibile dal contenuto, una dipendenza intima tra suono e canzone, tra testo e musica che insieme riescono a passare oltre il frastuono che ci attornia e ci protegge e colpiscono dritto in quell'area ancora sensibile e, poi, col tempo, può succedere che le possibilità diventino qualche cosa d'altro.
Cosa chiediamo ad una canzone? Io chiedo questo, un sussulto, un pensiero che interpreta e assolve la funzione di mediatore tra il mio presente ed il mio passato, una sorta di lente che esprima, caleidoscopicamente, le sfumature del presente. E la musica, che sfugge liquida ad ogni definizione, diviene, misteriosa forma del tempo....

martedì 14 giugno 2011

Asiatici del quartiere

Abito in un quartiere popolare. Uno dei più malfamati fino a qualche tempo fa, ora in netta espansione e rinnovamento. Gente disoccupata, che si arrangia, case grandi e rattoppate, la polizia che svogliatamente fa la ronda di continuo. Non è raro, la sera, trovarsi a braccetto con qualche prostituta, tremante ed in astinenza di crack che ti chiede 20 $, in cambio di favori. Si trovano ancora preservativi usati sui marciapiedi ed in estate i vicini di giorno si sbraitano improperi dai balconi, di notte vagano ubriachi cantando tra un lampione e l'altro. Eppure al mattino, imbronciate ed assonnate, trovi alla fermata dell'autobus le ragazzine con la divisa del college, segno che comunque c'è voglia di fare. E non appena si scioglie l'inverno, le aiuole sui marciapiedi sono ben curate con fiori e insalata, qua e là, che da un tocco di vita.
Ci sono poi i depanneur, una sorta di negozietti che vendono un po' di tutto, aperti fino a tarda notte, alcuni - i più antichi - che non chiudono mai. Si compra birra, giornali, sigarette, una scatola di tonno, alcuni hanno anche latte e caffé, altri ti fanno dei sandwich, il vino meglio lasciarlo stare perchè di qualità infima, ma in certe sere ci sta.
Ad un angolo di strada da casa mia, una coppia vietnamita tiene un piccolo depanneur che si chiama "Beau soir". Sono giovani, parlano male francese e sbocconcellano l'inglese. Il loro negozio è pulito, in ordine, la radio trasmette musica classica e loro sono sempre sorridenti e gentili. Non mi hanno mai fregato sul resto, neanche pochi spiccioli. Al contrario di tanti, la domenica sono chiusi e nelle sere della settimana, più di una volta, ho trovato chiuso prima dell'orario indicato sulla porta a vetri, io che, affannato, cercavo una birra o una scatoletta di tonno o un barattolo di maionese.... Mi danno l'impressione di essere sereni, un giusto equilibrio tra una vita da piccoli commercianti e la loro vita personale. Li trovo anche belli insieme, molto innamorati. Se già io e la mia combriccola della vecchia Europa fatichiamo nel continente americano, immagino loro, il senso di estraniamento e sradicamento che possono provare mentre d'inverno spalano la neve sul marciapiede, mentre gestiscono i furtarelli degli studenti quindicenni della scuola dell'isolato.
Il villaggio globale è anche questo: una somma di differenze che vivono prossime, a pochi metri di distanza e restano inconoscibili, anche sul lungo periodo.

sabato 11 giugno 2011

Migranti

Ieri sera, una serata come tante. Mi ritrovo seduto in un piccolo giardinetto, a sforchettare insalata su un piattino, a mangiare hamburger cotti a puntino dal cuoco di turno. Intorno a me sento parlare spagnolo, inglese, francese.
L'occasione dell'evento è il compleanno di C. conosciuto al corso di lingua, patrocinato dall'ufficio immigrazione. Tra i presenti, a parte due o tre autoctoni, tutti gli altri vengono da qualche altra parte del mondo per le più diverse ragioni, non sempre le più ovvie.
Un tizio dai tratti marcati delle Ande attira la mia curiosità. Mi racconta di essere cileno, parla senza pregiudizi del nord America, ne confronta i limiti con la tua terra, mi chiede notizie dell'Europa. Gli chiedo perchè sia venuto da queste parti, cosa l'abbia spinto a cambiare emisfero per aprirsi al mondo, tenuto conto che mi raccontava di essere partito per cercare di avere un punto di comparazione con la sua terra. Il dialogo coinvolge anche altri, messicani, canadesi e spagnoli. Iniziano a punteggiare i vari interventi parole come "paesi sottosviluppati", "civiltà", "diritti civili", "strati sociali". La conversazione si scalda. 
Vedendo il clima appassionato, chiedo perchè si abbia la percezione che il nord America sia un paese del primo mondo, in fondo tutti noi, anche se sono passati qualche anno dal nostro arrivo, viviamo tutti una situazione precaria, già il momento stesso che stiamo vivendo attorno ad un tavolo disseminato di birre e bicchieri vuoti ne è una testimonianza. Parole come "integrazione", "futuro", "partecipazione" - sempre che queste parole possano essere considerate come indicatori di una vera presa di posizione all'interno della società e quindi un simbolo di una presa di coscienza d'appartenenza "politica" - non sono ancora ben assestate nel nostro presente e mi chiedo se lo saranno mai. Se cercavamo qualche cosa, non ho l'impressione che l'abbiamo veramente trovata, o almeno, a me personalmente sembra di no. Non che ci siano voglie latenti di tornare indietro, ma la partita resta aperta. Accenno anche un'ipotesi di analisi del perchè il cosiddetto primo mondo ora possa permettersi di tenere le frontiere aperte ed essere considerato mondialmente un "paese d'accoglienza": l'immigrazione può essere un grande business, che si nutre di speranze e dell'energia vitale di tanti che legittimamente sperano una condizione migliore.
Alla fine, i toni si accendono ancora di più, i malintesi dei pensieri travasati in diverse lingue si accavallano, c'è qualcuno che si offusca, un poco ebbro qualcun altro sbatte contro la zanzariera tirata sul varco della cucina, si ride, si fuma e si rompe qualche bicchiere.
Ci sono molte parole e molte vite, ma abbiamo solo i nostri giorni per cercarle o trovarle. Non è male sapere che non siamo soli.
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