giovedì 20 marzo 2014

Essere altrove

Vivere all'estero vuol dire non vivere nel proprio paese di origine. 

Lapalissiano, banale, lineare.
Nella sua binaria evidenza, questa realtà è comunque un percorso quotidiano, di scoperta ed appropriazione continua. Sarà che sono svagato di natura, ma ci sono piccole illuminazioni di questa condizione che mi assalgono nei momenti più impensati, sorprendendomi dal bordo dell'attenzione e insediandosi profondamente nei pensieri, fino ad alimentarne la consapevolezza.
Qualche sera fa, me ne stavo sul patio che da su prato interno, sul retro del mio immobile e mi godevo lo sciacquio dell'anacronistico disgelo di questi giorni: l'aria era spessa e umida, attraversata da una pioggia leggera, che imbeveva la neve vecchia e frammentava la spessa crosta di ghiaccio. L'oscurità sonnacchiosa della prima notte lasciava vagare le sensazioni ed i pensieri in un torpore di stanchezza della giornata e dell'inverno, che pare sempre feroce nel Nord America.
Ad un tratto, un pensiero mi attraversò la mente:
-  Quando morirà tuo padre non sarai nei paraggi. Sarai lontano.
Una punta emotiva, quella sensazione al diaframma di oppressione nel respiro.
Una liquida corrente sotterranea, un appiglio per quelle ombre, mai sopite, di domande e dubbi che un percorso su tre continenti, decine di contratti d'affitto e una visione fissa dell'ineluttabilità dell'orizzonte ha come costellazione di riferimento.
Vivere all'estero vuol dire non vivere nel proprio paese di origine. 
Lapalissiano, banale, lineare.
Un vento freddo faceva scricchiolare gli alberi irrigiditi dal gelo. Grosse gocce indolenti piombarono senza rumore e lasciarono flebili tracce nella neve fradicia e pesante.

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